Elio Fedele e la forza diagonale del presente
Finissage venerdì 10 maggio, alle ore 19, per la mostra “Cercando un altro Egitto” allestita negli spazi della Galleria Camera Chiara nel centro storico di Salerno. Lunedì 13 maggio, “Dialoghi sulla fotografia” in tour a Bellizzi, studio Cerzosimo
“Ancora terre straniere/ forse ci accoglieranno: smarriremo/ la memoria del sole, dalla mente/ ci cadrà il tintinnare delle rime./ Oh la favola onde s’esprime/ la nostra vita, repente/si cangerà nella cupa storia che non/Si racconta!”. E’ il Montale di Mediterraneo che ci è venuto incontro dinanzi alle immagini di Matteo Elio Fedele, raccolte sotto il titolo “Cercando un altro Egitto”, seconda “visione”, dopo l’apertura affidata alle immagini di Nathalie Figliolia, dei “Dialoghi sulla fotografia”, ideati da Armando Cerzosimo e realizzati insieme all’intero studio e ai suoi germani Pietro e Nicola, in uno spazio che si fa tòpos, nella sua varia accezione, nel momento delle esposizioni e degli incontri. Venti immagini, quelle di Fedele, che vivranno il loro finissage salernitano venerdì 10 maggio, alle ore 19, nella galleria di Via Giovanni da Procida 9, prima di trasferirsi nello studio di Via Roma 210 in Bellizzi, ove si terrà l’ultima serata lunedì 13 maggio, nello stesso orario. Nel corso dell’incontro con Antonio Bergamino, Gabriella Iovino, Erminia Pellecchia e Cristina Tafuri, elemento caratterizzante questa rassegna che vanta il patrocinio morale dei comuni ospitanti, nonché della Cna provinciale, diversi gli spunti toccati intorno al viaggio, al target di queste immagini, alle storie infinite che lasciano trapelare, con la loro densità affettiva e la loro costitutiva eccedenza rispetto al tempo e ai luoghi. Niente è di più vibrante di un ritratto, di un volto che penetra attraverso il suo sguardo antico o di una ragazzina che sorride al futuro, senza mai dimenticare il suo luminoso passato. Da queste immagini la diaspora di colori, tonalità, infinite tracce accolte senza beneficio di inventario. I nostri due fotografi Elio Fedele e Armando Cerzosimo, sanno bene quanto sia destabilizzante inseguire le scie di un archivio di visioni liquide, meticce infinito e quanto abbia da guadagnare quest’arte da un simile spaesamento, che affluisce poi ad un’idea meno scontata di identità e di dimora che ci attirerà verso ciò che sopravvive e persiste come risorsa culturale e storica capace di resistere, turbare, interrogare e scardinare la presunta unità del presente. Durante i dialoghi è saltato fuori il termine tecnicismo, riguardo all’uso di un’ottica 85mm Nikon, che la stampa di Pietro ha posto così perfettamente in luce. Tutti i termini che chiudono in “ismo”, sono negativi, anticamera di narcisismo che cozzerebbe col termine arte. Una riflessione disciolta dalla frase di uno dei maestri di Fedele, Antonio Bergamini, che prescrive di non innamorarsi mai della propria arte, sia essa fotografia, teatro musica. Una soluzione questa che non riguarda solo semplicemente il mondo dell’arte, ma la nostra condizione storica contemporanea: significa estrapolare da un dibattito relativo all’arte contemporanea un po’ intrappolata tra autonomia estetica e impegno sociale, i segni di un temperamento critico più ampio, che potenzialmente riconfiguri la condizione aporetica, ovvero il dubbio dell’arte stessa, quel dubbio e quindi la scelta, che farà restare l’intelligenza artificiale solo un mezzo. La fotografia di Elio Fedele, nel quale riconosciamo vestigia dei popoli dell’Oman, dell’India più povera e sconosciuta, i piccoli tibetani, del deserto del Quarto vuoto, ovvero del Rub’al Khali, ove il fotografo ha immaginato e fermato il proprio pieno, ridimensionando la fotografia quale testimone e testimonianza storica ed enfatizzandone la sua facoltà di investigare una costellazione storica in maniera rispondente alla sua materialità, in quanto affettività, sguardo, ispirazione, comunicazione e devo aggiungere, suono, in cui passato, presente, e possibili futuri sono mescolati insieme eccedendo la linearità irredimibile del progresso, realizzando così ciò che Hanna Arendt definisce “forza diagonale” del presente, ovvero ciò che comincia in un punto preciso tra le infinità del passato e del futuro.